In Italia, la consulenza finanziaria bancaria continua a muoversi in una zona grigia dove la trasparenza dei costi è più un auspicio che una realtà. Chi si affida a una banca per ricevere indicazioni su come investire i propri risparmi spesso non ha piena consapevolezza del prezzo reale del servizio che sta acquistando. Le commissioni non sono sempre esplicitate in modo comprensibile, i costi vengono frammentati in voci tecniche e le informazioni essenziali per valutare l’effettiva convenienza di una proposta d’investimento risultano difficili da decifrare.
Il paradosso è evidente: la consulenza viene presentata come gratuita, ma in realtà è ampiamente remunerata attraverso meccanismi indiretti, come le retrocessioni e le commissioni di gestione dei prodotti finanziari collocati. Questo crea un evidente conflitto d’interesse. Il consulente bancario, formalmente dipendente dell’istituto, è incentivato a proporre strumenti che generano maggiori margini per la banca, e non necessariamente quelli più adatti al profilo dell’investitore.
Le retrocessioni: un nodo irrisolto
Il cuore del problema ruota attorno alle retrocessioni, ovvero le commissioni che i produttori di fondi riconoscono agli intermediari per la distribuzione dei propri prodotti. Questi costi vengono spesso sottratti al patrimonio dell’investitore in modo poco trasparente. Nella maggior parte dei casi, il cliente non è consapevole né dell’esistenza di tali retrocessioni, né della loro entità. Questo modello, ancora dominante in Italia, rende difficile valutare l’indipendenza della consulenza ricevuta.
Nonostante l’entrata in vigore della direttiva europea MiFID II, che ha introdotto nuovi obblighi informativi, le banche hanno trovato modi per rendere le comunicazioni poco chiare, spesso diluendo i numeri in documenti lunghi e complicati. La trasparenza formale non corrisponde a una vera chiarezza sostanziale. Se da un lato l’investitore riceve un prospetto informativo, dall’altro manca la cultura finanziaria necessaria per interpretarlo con piena consapevolezza. E così, ciò che dovrebbe garantire tutela diventa uno strumento che nasconde più di quanto riveli.
Il confronto con altri modelli europei
Basta spostare lo sguardo su altri paesi europei per comprendere quanto il sistema italiano sia indietro sul fronte della trasparenza. In Regno Unito e Olanda, ad esempio, il modello delle retrocessioni è stato vietato, imponendo la consulenza fee-only: il cliente paga direttamente il professionista per il servizio ricevuto, e il consulente non percepisce alcuna commissione dai prodotti venduti. Il risultato è un rapporto più chiaro, privo di ambiguità e centrato esclusivamente sull’interesse del cliente.
In Italia, invece, questo modello stenta a decollare. Le ragioni sono culturali, ma anche economiche. La grande maggioranza dei risparmiatori è abituata a pensare che il servizio di consulenza sia gratuito. Le banche alimentano questa percezione per mantenere il controllo sulla distribuzione dei prodotti finanziari, che rappresenta una fetta significativa della loro redditività. Cambiare paradigma significherebbe ridefinire l’intero equilibrio del sistema, mettendo al centro la trasparenza e la qualità della consulenza.
La responsabilità delle istituzioni
Anche le autorità di vigilanza hanno una responsabilità non marginale nella scarsa trasparenza del sistema. La Consob e la Banca d’Italia hanno adottato una posizione interlocutoria, cercando di bilanciare gli interessi del mercato con quelli della tutela del risparmiatore. Tuttavia, questo equilibrio ha finito per penalizzare proprio chi avrebbe bisogno di maggiore protezione.
Mancano interventi decisi e vincolanti, come l’imposizione di standard comunicativi più chiari o l’obbligo di rendere evidenti i costi totali in forma aggregata, con esempi numerici che mostrino l’impatto effettivo dei costi sulla redditività degli investimenti. La volontà politica di affrontare il problema è debole, forse anche perché il settore bancario conserva ancora un peso rilevante nei processi decisionali.
Il ruolo cruciale dell’educazione finanziaria
Nel frattempo, l’unico vero antidoto resta l’educazione finanziaria. Un cittadino informato, capace di leggere un prospetto e comprendere i meccanismi di remunerazione della consulenza, è meno vulnerabile agli abusi. Tuttavia, l’Italia è fanalino di coda in Europa per livello di alfabetizzazione finanziaria. La scuola, i media e le istituzioni fanno ancora troppo poco per colmare questo divario.
Promuovere una cultura della consapevolezza significa anche aiutare il risparmiatore a capire che un servizio di consulenza professionale, competente e indipendente ha un valore economico e va pagato in modo trasparente. L’idea che “gratis è meglio” deve essere sostituita dalla convinzione che la qualità si paga, ma deve essere chiara, giustificabile e giustificata.
Una questione di fiducia
La trasparenza nei costi non è solo un’esigenza tecnica. È un fattore chiave per ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e sistema finanziario. Ogni opacità, ogni omissione, ogni informazione mascherata sotto formule complicate, mina questo rapporto e alimenta un senso diffuso di sfiducia. E quando manca la fiducia, anche le scelte di investimento diventano più caotiche, timorose o, peggio ancora, delegate in modo passivo.
La consulenza finanziaria dovrebbe essere uno strumento per aiutare le persone a realizzare i propri obiettivi di vita. Ma finché i costi rimarranno nascosti, finché il cliente non potrà sapere con certezza chi sta pagando cosa e per quale servizio, il sistema continuerà a funzionare più per le banche che per i risparmiatori. Parlare di trasparenza non è un atto tecnico, è una questione di giustizia economica. E oggi, più che mai, non possiamo permetterci di ignorarla.