In assenza di dati macro di rilievo negli Stati Uniti e in Europa nel corso dell’attuale settimana, l’attenzione degli analisti sembra essersi focalizzata sugli eventi politici e sugli interventi di membri dei Consigli di Banca Centrale Europea e della Federal Reserve.

Ma andiamo con ordine. Per quanto concerne i prossimi impegni elettorali, nel fine settimana è giunta notizia della candidatura dell’attuale Cancelliera tedesca Merkel a un possibile quarto mandato alla guida del Paese. Nonostante la perdita di popolarità per la gestione della crisi dei migranti, la scelta del partito è stata quella di garantire un punto di stabilità dopo le incertezze determinate da Brexit e Trump, per una presa di posizione che sembra aver riscontrato il gradire di molti, e l’insoddisfazione di altrettanti. Sicuramente maggiori sono le novità in Francia, dove le primarie del partito conservatore hanno determinato che a contendersi la candidatura alle presidenziali dell’anno prossimo saranno gli ex premier Fillon e Juppé. Escluso dunque l’ex presidente Sarkozy, in un contesto in cui appare in vantaggio per ora Fillon che tra i due rimanenti è quello dalle posizioni più conservatrici. Le notizie dell’ultimo fine settimana sono solamente l’inizio di una lunghissima striscia di appuntamenti elettorali e di consultazioni, dove anche l’Italia sembra poter fare la sua parte di riferimento con il referendum del 4 dicembre sulle modifiche alla Costituzione: anche in merito, le turbolenze e le ripercussioni potrebbero non mancare, in entrambi gli esiti.

Tornando alle politiche monetarie, sul fronte delle Banche centrali, diversi i discorsi in calendario in questa settimana, a cominciare da quello, già avvenuto in chiave ultra accomodante dello stesso presidente Draghi, che presenterà il rapporto annuale della BCE presso il Parlamento Europeo. Congiuntamente, voci diverse si sono sollevate con toni accomodanti da parte del capo economista Praet, che ha riaffermato la determinazione a mantenere una politica monetaria accomodante, mentre il tedesco Weidmann ha classificato come temporanea la debolezza dell’inflazione, chiarendo che le misure non convenzionali vanno usate con estrema cautela e per periodi brevi. Il banchiere centrale tedesco, però, non voterà in occasione della riunione di dicembre. Cambiando sponda dell’Atlantico appare invece sempre più vicino un rialzo dei tassi in dicembre, dopo che Bullard (Fed di St. Luis) si è schierato favorevole a un aumento dei tassi a fine anno e a seguito delle dichiarazioni di Kaplan (Fed di Dallas) che ha indicato come “si sia arrivati al punto in cui siamo pronti a rimuovere un po’ di stimolo monetario nel prossimo futuro”. Gli analisti danno una probabilità di rialzo dei tassi a dicembre vicino a 1: quanto basta per permettere ai mercati di inglobare nei propri atteggiamenti tale evento, diminuendo – ma non troppo – gli ulteriori ribassi dell’euro nel brevissimo termine.

A proposito di cambi, sul fronte valute l’indice del dollaro appare stabile rispetto alle principali controparti. A sostenere la valuta USA sono le attese di un ritorno d’inflazione negli Stati Uniti per effetto delle politiche fiscali espansive del presidente eletto Trump. Gli operatori attendono il giro di Banche centrali previsto per dicembre con decisioni importanti da prendersi soprattutto per la Fed (rialzo dei tassi) BCE (prosieguo del programma di acquisto titoli QE) e BoJ (target di inflazione e controllo della curva dei tassi). In tale scenario, la valuta più debole dovrebbe essere rappresentata da quella unica europea, che per alcuni analisti potrebbe intraprendere la strada della parità assoluta nei confronti del dollaro, entro il 2017 (più difficile che questo avvenimento possa riguardare il 2016, considerando che una buona parte delle erosioni del cambio si sono già manifestate).

Per quanto concerne le materie prime, le attenzioni restano evidentemente sul petrolio. Le quotazioni sono in rialzo supportate dalla prospettiva di un taglio della produzione da parte dell’OPEC. Il meeting informale di Doha dello scorso venerdì si è concluso con nessun accordo stringente. L’obiettivo dell’incontro ufficiale di Vienna diventa quello di ridurre la produzione OPEC a 32,5 milioni di barili con Iran, Libia e Nigeria che dovrebbero essere esenti dal taglio mentre l’Iraq spera fino all’ultimo di venir anch’esso esentato. La Russia conferma di essere pronta ad un taglio ma aspetta le decisioni in seno al Cartello prima di assecondare una riduzione della produzione. Insomma, qualche passo in avanti è stato compiuto, ma i margini di incertezza sull’effettiva possibilità di applicazione dell’accordo, di una sua efficacia e della possibilità di poter integrare le politiche OPEC con quelle extra-cartello, sono tutt’altro che risibili.

Chiudendo con un piccolo sguardo all’azionario, la settimana scorsa si è chiusa evidentemente in calo, in un contesto in cui preoccupano, soprattutto in Europa, i decisi rialzi dei rendimenti di mercato. Negli Stati Uniti sembra prevalere, nelle ultime sedute, una certa cautela e attesa per la definizione dello staff presidenziale per poter ipotizzare quali saranno le reali concretizzazioni delle promesse elettorali di Trump. I principali indici statunitensi hanno comunque archiviato una nuova settimana in rialzo, la seconda consecutiva, che li ha condotti a registrare nuovi livelli storici o, come nel caso dell’S&P500, a riportarsi a ridosso dei massimi assoluti. L’attesa per le nuove politiche espansive ha favorito soprattutto il segmento delle società statunitensi a minore capitalizzazione, con l’indice Russell 200 che ha registrato 11 sedute consecutive in rialzo, la miglior serie positiva dal 2003.