Quella passata è stata una settimana di “rallentamenti” sul fronte FOMC e Brexit. Da una parte, infatti, la Federal Reserve continua a portare in avanti i lavori di preparazione per un rialzo dei tassi di interesse di riferimento alla riunione di dicembre, anche se si lascia una via di uscita che sembra essere per lo più legata al rischio elettorale (salito nelle ultime settimane) che ai dati economici. Da questa parte dell’Atlantico, invece, si registra la sentenza dell’Alta Corte inglese con la quale si impone al Governo di ottenere un mandato parlamentare prima di attivare le procedure di uscita dall’Unione Europea. A meno che la Corte Suprema non rovesci il verdetto (molto difficile), questo potrebbe portare a tempi più lunghi per l’intero processo.

Stati Uniti: molto probabile il rialzo tassi a dicembre

Vediamo ora in un livello di maggiore dettaglio quello che sta accadendo negli Stati Uniti, dove la riunione del FOMC della scorsa settimana si è conclusa, come ampiamente atteso anche su queste pagine, con tassi di interesse i riferimento fermi e con l’emersione di nuovi segnali di un probabile rialzo dei tassi in tempi ravvicinati.

Il voto con il quale il FOMC ha scelto di rinviare al futuro la scelta di incrementare i tassi di riferimento non è stata assunta all’unanimità, ma i due dissensi riguardano membri favorevoli a un rialzo immediato, e non sono certamente in grado di costituire delle posizioni sorprendenti. Si tenga conto inoltre come il comunicato abbia apportato solo pochi cambiamenti al testo di settembre, e che tali variazioni – ripetiamo, molto lievi – sono mirati esclusivamente a segnalare che i motivi per un rialzo sono ulteriormente aumentati rispetto alla riunione precedente.

Ad ogni modo, è piuttosto difficile cercare di comprendere quale sia la “reale” sensazione interna al FOMC, visto e considerato che il Comitato ha replicato esattamente le stesse conclusioni di settembre, aggiungendo qualche aggettivo e alcuni verbi per poterla distanziare nella sostanza. D’altronde, è sotto gli occhi di tutti che il quadro macroeconomico da settembre in poi abbia continuato a soddisfare le condizioni che il Comitato sembrava richiedere per alzare i tassi (e una nuova conferma in tal senso è arrivata con il dossier sul mercato del lavoro, di venerdì scorso). Pertanto, l’unica motivazione che ha presumibilmente condotto a spostare la decisione del rialzo tassi da novembre a dicembre è esattamente l’unica motivazione che non si poteva dichiarare esplicitamente nel comunicato del FOMC: la paura di subire eventuali shock post-elettorali, discendenti principalmente dalla possibilità che a prevalere sia Donald Trump.

Proprio nel senso della nostra ultima affermazione è possibile rilevare come il rischio connesso alle elezioni presidenziali americane dell’8 novembre sia andato ad aumentare nel corso dell’ultima settimana, con un progressivo ridursi del vantaggio della candidata democratica nei sondaggi. I mercati, che davano quasi per certa la vittoria di Hillary Clinton, sono infatti tornati a scontare un esito incerto, anche se occorre dire che gli stessi non stanno in realtà scontando una vera e propria vittoria del candidato repubblicano Trump, ma soltanto una probabilità non più trascurabile che avvenga.

A questo punto, si può altresì anticipare come, se la vittoria di Trump dovesse verificarsi davvero, si tratterebbe della necessità di dover aggiustare ulteriormente il “tiro” con evidenti complicazioni per il lavoro della Federal Reserve a dicembre. Inoltre, anche una vittoria della Clinton potrebbe essere seguita da contestazioni e da un rischio di crisi istituzionale, a motivo delle indagini in corso. Insomma, lo scenario non è chiaro, e rischia di non esserlo nemmeno nell’immediato post-elezioni.

Brexit: si avvicina un contesto più “soft”

Esattamente così come sta avvenendo per le elezioni americane, anche il percorso verso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è diventato un po’ più accidentato. Ma, contrariamente a quanto avviene per le elezioni presidenziali USA, potrebbe non essere un male.

Il nostro riferimento è ovviamente al fatto che l’Alta Corte inglese ha imposto al Governo di ottenere un mandato parlamentare per il negoziato. Il Governo avrebbe preferito evitare questo passaggio, e intende tentare ancora la via del ricorso alla Corte Suprema per scongiurarlo. La Corte Suprema potrebbe esaminare il caso a inizio dicembre, ma è molto difficile che possa a sua volta ribaltare la posizione dell’Alta Corte, anche considerando che le argomentazioni tecniche portate avanti dal Governo non sono fortissime.

Ad ogni modo, è opportuno cercare di ricondurre alla giusta sfera di sostanza quel che è accaduto e probabilmente accadrà. La sentenza con la quale l’Alta Corte obbliga l’ottenimento dell’approvazione del Parlamento non rimetterà certamente in discussione l’uscita dall’UE, che a questo punto è difficilmente reversibile (è ovvio che se il Parlamento rifiutasse la Brexit, il Governo passerebbe prontamente alla cassa indicendo le elezioni anticipate e ottenendo dalle urne una maggioranza che dovrebbe essere ancora più solida e favorevole). Lo scenario più probabile è dunque quello che, pur senza boicottare il processo, il Parlamento riuscirà a “mediare” i propri interessi, imponendo dei vincoli e delle condizioni che il Governo dovrebbe digerire, pur in maniera sgradita.

Per esempio, è molto probabile che il Parlamento possa pretendere dal Governo che chiarisca quali sono gli obiettivi del processo della Brexit, e che nella conduzione del processo si tengano comunque conto le opinioni dei contrari (il 48% dei cittadini). Naturalmente, c’è anche l’ipotesi per la quale il Parlamento non agisca con particolare incisività, limitandosi pertanto a compiere un lavoro formale di “conferma” della decisione dei cittadini.

Riteniamo comunque molto più probabile che il Parlamento interverrà attivamente nel condizionare il processo di uscita dall’Unione Europea, e che tutto ciò potrebbe portare (nelle prossime settimane se ne saprà di più) a uno slittamento, anche corposo, dei tempi che il premier May aveva indicato per poter dar seguito al meccanismo di negoziazione per le modalità di abbandono dell’UE (marzo 2017).